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23 settembre 2023

Nuovo corso on line: "Capricci e dintorni 2.0"

Sei un lettore di "Capricci e dintorni" (prima seconda edizione)?

Ti sembra di aver già scoperto tutto ciò che c'era da scoprire dentro il libro che hai letto?

Io penso che abbiamo ancora molto da dirci: "Capricci e dintorni 2.0" è l'occasione per farlo.

Scarica e condividi la locandina

"Capricci e dintorni 2.0" è un percorso assolutamente unico perchè...

24 settembre 2013

Al mio segnale... scatenate l'inferno!


È giunta l'ora, finalmente.

Il momento in cui qualcuno alza la voce per dire ciò che va detto.

Dopo Estivill che ha ritrattato le sue "tesi" tanto note (e tanto vendute, sigh...) - quelle contenute nel libro  "Fate la nanna", dopo l'instancabile lavoro controcorrente della Casa Editrice "Il leone verde" con la sua collana "Il bambino naturale" (con volumi del calibro di "E se poi prende il vizio?", "Facciamo la nanna", "Di notte con tuo figlio", "Sono qui con te"...) ECCO che anche importanti Associazioni tra le quali l'ACP-Associazione Culturale Pediatri dicono basta ai "metodi" per far dormire i bimbi.


3 giugno 2013

Capricci, regole e relazioni familiari

Ed ecco il post di chiusura per la presentazione della Settimana della Formazione On Line per genitori promossa da Educazione Consapevole.

La seconda edizione di "Capricci, regole e relazioni familiari", il corso di formazione a distanza più "delicato" sinora condiviso con voi. Un tema difficile, trattato con rispetto e verità, in due incontri.

Ecco la locandina:


Tutte le informazioni necessarie a questa pagina.

Vi aspetto!
Maria Beatrice 

21 marzo 2012

Un'intervista per pensare

Buongiorno a tutti e buon inizio di Primavera!

Stamattina ho trovato nella mia casella di posta elettronica la mail di un'amica che inoltrava l'intervista che di seguito copio e incollo:

"Classe 1960, nazionalità francese, bionda, occhi azzurri, fasciata in un elegante abito di pizzo bianco Clara Lejeune è amministratore delegato unico e presidente della General Electrice France un’azienda che conta 10mila dipendenti, sposata con Hervè Gaymard, ex ministro dell’economia francese, e  madre nove figli di età compresa tra 4 e 18 anni. «Ma come fa a far tutto?» è una domanda che le rivolgono molto spesso.«A dire il vero me lo chiede spesso proprio mio marito – risponde divertita – ma non credo di avere un trucco da svelare. Semplicemente ad un certo punto ho abbandonato l’idea di dover fare tutto in modo perfetto e ho capito che l’importante è esserci. Amo mio marito e amo i miei ragazzi, cerco di fare quello che posso, non sempre ci riesco, ci sono giornate in cui tutto fila liscio e altre che sono un disastro, in quel caso semplicemente mi scuso, non sono una super mamma e i ragazzi lo capiscono. Sul lavoro ho imparato a delegare, se ho un appuntamento importante in famiglia esco prima. Non c’è riunione d’emergenza che tenga, non c’è invito di manager, politici e imprenditori importanti che mi trattenga, semplicemente esco. Certo mi sono giocata delle opportunità, ma la mia famiglia viene prima e questo non ha penalizzato in maniera determinante la mia carriera».
Clara Gaymard dice tutto questo con la naturalezza di chi vive una dimensione di normalità simile a tante altre e intuisce che per chi ascolta non sia così «Noi donne abbiamo la tendenza a voler far tutto, tutto per noi e tutto per i nostri figli. Io mi sono aiutata con poche semplici regole, una è questa: niente cene fuori. Sono i momenti più belli in cui siamo tutti insieme attorno allo stesso tavolo e non me ne priverei mai. Non accetto inviti fuori, non esistono cene di lavoro. Se decidiamo di vedere degli amici li invitiamo a casa oppure andiamo noi da loro, tutti e undici naturalmente. Anche i ragazzi hanno una regola: possono svolgere un’attività extrascolastica e che sia raggiungibile a piedi da casa, non posso accompagnarli tutti e nove a canto, pallavolo, musica, pattinaggio. Per qualcuno questa può essere una scelta penalizzante, io invece cerco di far scegliere ai miei figli quello che li appassiona davvero: una cosa, oltre la scuola, è sufficiente».
Quindi conciliare carriera e famiglia è possibile?
«Mi dispiace che si parli di conciliare. Noi donne siamo innanzitutto madri, questo non significa che se c’è la possibilità, non dobbiamo lavorare. Per me è importante che ogni donna abbia la possibilità di scegliere, che se desidera stare accanto ai figli lo possa fare, che se torna al lavoro non venga relegata a fare fotocopie, vorrei che ogni madre potesse vivere la gravidanza, ma anche la propria maternità nel modo più sereno possibile. La mia vita è complicata, ma mi chiedo “chi non ha una vita complicata?” anche con due figli è complesso, anche stando a casa a curare i figli ci sono le difficoltà. Ecco io dico che una donna dovrebbe poter scegliere serenamente, perché la serenità nella scelta sarà poi la forza di affrontare le difficoltà. Sento tante madri che si lamentano anche per cose piccole, io mi sforzo e cerco di non farlo. Mi dico “I miei figli hanno diritto ad avere una madre contenta”. Per questo il mio dovere è fare il meglio, il resto lo affido serenamente a Dio».
Nello sguardo sicuro di Clara Gaymard sembrano fondersi la serenità e l’umiltà di suo padre Jérôme Lejeune (1926 -1994),  medico, ricercatore e scopritore della sindrome di Down, Lejeune fu il primo grande oppositore delle pratiche eugenetiche e accanito difensore della dignità della vita. Grande amico di Giovanni Paolo II, fu il primo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, e nel 2007 è iniziato il processo per la sua beatificazione.
«Ho avuto la fortuna, o forse sarebbe meglio dire la grazia di essere sua figlia, di vivere con lui. Un medico e un ricercatore, che però riusciva sempre ad ascoltarci. Aveva poco tempo, ma ogni giorno veniva a casa per pranzare insieme e allora era tutto per noi bambini, ci ascoltava e stava con noi. Il pranzo era anche il momento in cui papà raccontava quello che faceva sul lavoro. Ancora ricordo di quando ci descrisse questi bambini, con il viso un po’ cicciottello, dallo sguardo particolare, ci raccontava che nessuno li voleva, e che i genitori si vergognavano e lui diceva “Io voglio aiutare questi bambini, sono bellissimi”. Era felice di fare questo. Io non sono un medico, sono diversa in tante cose da mio padre, ma nel cuore ho la stessa felicità».
«La vita è felicità» è anche il libro scritto da Clara Gaymard nella quale racconta la sua vita e quella di suo padre. Il segreto per la felicità dunque non è riuscire a fare tutto?
«Ci sono cose importanti, e altre urgenti. E molte cose urgenti non sono importanti. Quelle importanti, poi, spesso non possono essere risolte rapidamente, perciò, non vanno fissate come urgenti. La serenità è prenderne atto e fare al meglio quello che si può fare, la felicità è sapere che c’è qualcuno che, per fortuna, che ha progetti diversi e più grandi dei nostri»."

Devo dire che leggendola mi sono poi chiesta se ci siano stati dei "ritocchi" o delle "aggiustatine" qua e là, perchè mi sembra fin troppo coerente e "perfetta". Ma pensandoci un attimo in più ho capito che il messaggio di fondo - che è quello della valorizzazione delle relazioni prima ed al di là del resto, nonchè del rispetto per la vita e del senso che ogni vita dona e può donare alla nostra esistenza - era chiaro e netto anche ipotizzando i già citati "ritocchi" e "aggiustatine".

Possiamo certo dirci che molto probabilmente la signora Lejeune in Gaymard abbia a disposizione risorse e strumenti non comuni, data la posizione socio-economica che le è propria. Possiamo anche dirci che è facile parlare per una donna che ha un marito come il suo. E ancora: possiamo dirci che aver avuto un padre come Jerome Lejeune non è certo esperienza comune. Vero. Tutto vero.

Credo, però, che le cose che possiamo dirci non siano solo queste. Credo che possiamo fermarci ad ascoltare la voce di una mamma (consentitemelo: nove figli sono nove figli, anche per Clara Lejeune!) che parla dei suoi figli con intelligenza e rispetto. Che ammette di aver perso occasioni importanti per non aver anteposto la carriera alla famiglia. Che si è accorta di non poter arrivare dappertutto e ha imparato a fare ciò che la maggior parte di noi donne-mamme non sa fare: accettare di essere imperfette, delegare, tollerare di non tenere tutto sotto il proprio controllo.

E ancora: mi chiedo quanto abbia giocato la presenza di un padre come Jerome Lejeune nella crescita e nella formazione di Clara. Badate bene: non mi faccio incantare dall'immagine del padre medico e scienziato che trova il tempo per tornare a pranzo a casa dalla famiglia. O meglio: cerco di andare oltre questo clichè del padre-impegnato-ma-presente e della madre-in-carriera-ma-i miei-figli-sono-più-importanti. Cerco di cogliere il senso profondo di queste immagini, il senso della presenza, il senso dell'esserci e del far percepire il proprio coinvolgimento sincero. E non solo: mi chiedo quanto sia stato incisivo l'effetto dei messaggi veicolati da questo papà, felice di un lavoro che era molto più di una professione: una passione, una missione, una vocazione.

La felicità è contagiosa tanto quanto la tristezza, tutti lo possiamo verificare con facilità nella vita di ogni giorno. Quando ci sentiamo felici e soddisfatti per qualcosa emaniamo una sorta di energia positiva che irradia e contagia. E quando addirittura viviamo l'esperienza dell'entusiasmo portiamo intorno a noi una dimensione divina, ultraterrena (entusiasmo deriva dal greco "essere in Dio", en-theos). Ed abbiamo la possibilità di elevarci al di sopra di ciò che ci è abitudine e consuetudine.

Ecco, questo è quanto ho guadagnato stamattina leggendo l'intervista di Clara: una sensazione di serena ed entusiasta possibilità evolutiva, un nuovo spunto per pensare alla mia vita di donna, di mamma, di moglie, di professionista.  La sensazione di poter provare ad essere tutte queste cose armonizzandole in un insieme coerente e meravigliosamente imperfetto, ma non per disimpegno o per pigrizia. Per semplice umanità. Anzi, Umanità, in tutti i sensi possibili.

E voi, che ne dite? Sarei felice di ascoltare i vostri pensieri in merito!

Un caro saluto a tutti voi.

Maria Beatrice 

9 marzo 2012

La profezia che si autoavvera

Buongiorno a voi, amici di Educazione Consapevole!

Ieri mattina ho ricevuto un regalo: la visita di una cara amica che è venuta a trovarmi e ha trascorso qualche ora con me, dandomi la possibilità di godere della sua compagnia e di riflettere sul fenomeno della “profezia che si autoavvera”.

Forse qualcuno di voi ne ha già sentito parlare, magari in contesti e situazioni legati alla scaramanzia (“non dire così, che poi succede davvero!” oppure “non dirlo neanche per scherzo, che te la cerchi!”).

Partendo dal presupposto che la profezia che si autoavvera, intesa come fenomeno psicologico e relazionale, nulla ha a che fare con la scaramanzia, possiamo cercare di capire meglio di cosa si tratta.

Io ne ho sentito parlare “correttamente” la prima volta durante una lezione del corso di Psicologia Generale, il primo anno di università. Il buon professor Anolli ci spiegò che la nostra mente ha la capacità di filtrare la realtà che ci si presenta, di modo che tendiamo a vedere alcune cose e ad ignorarne o addirittura respingerne altre
 


Mi ricordo che utilizzò l’esempio degli ultrasuoni e dei raggi infrarossi, che pur esistendo non sono udibili e visibili ad orecchio ed occhio umano, perché il nostro cervello non è in grado di recepirli. Disse che ognuno di noi ha i “propri” ultrasuoni e infrarossi, di modo che dieci persone possono percepire dice cose differenti di fronte ad uno stesso stimolo.

Si trattava di una lezione di Psicologia Generale, stavamo affrontando l’ostico tema della percezione… ma il professor Anolli era anche docente di Psicologia della Comunicazione e non mancava di proporci ragionamenti più ampi e ricchi del dovuto; per cui aggiunse che questo meccanismo della “mente filtrante” poteva avere effetti importanti all’interno delle relazioni tra le persone, orientandole e, a volte, impedendole e distruggendole.

“Si chiama profezia che si autoavvera” – disse – “e funziona così: se io non ti conosco e ci incontriamo, io ti osservo e di te mi giungono una serie di “dati”, di informazioni; alcuni di questi “dati” sono trascurati dalla mia mente perché, per come è strutturata ed impostata, questi dati le risultano, magari, sgraditi. Altri dati, invece, sono colti con enfasi ed attenzione, perché magari evocano sensazioni positive o mi ricordano qualcosa che mi piace. Insomma: la mia mente comincia già a scegliere (ecco l’effetto-filtro) qualcosa di te e “tu” non sei già più “tu” perché nella mia mente si forma pian piano un’immagine di te che è costruita dalla mia mente stessa.
Poi, se continuiamo a frequentarci, la mia mente pensa e questi pensieri evocano in me delle emozioni che, a loro volta, mi inducono a produrre nei tuoi confronti certi comportamenti. E con il tempo, specialmente se tra me e te per qualsiasi motivo non c’è “parità” ma “disparità” – perché io sono ad esempio tuo padre o un tuo docente o il tuo ragazzo e la mia posizione ha un effetto relazionale incisivo su di te – i miei comportamenti ti inducono a comportarti in modo da confermare l’immagine di te che la mia mente ha creato e che tenterà di rafforzare nel tempo, per risparmiare risorse ed energie”.

Silenzio in aula, tutti pendenti dalle labbra del professore che ci guardava sperando che qualcuno di noi facesse un commento arguto e sagace… Macchè…

“Per cui” – riprese con un mezzo sospiro il professore, guardandoci in tralice al di sopra degli occhiali poggiati sulla punta del naso – “se io penso che tu sia stupido e sento che non ti apprezzo perché non mi piacciono le persone stupide e mi comporto con te trattandoti da stupido, accade che tu inizierai a comportarti esattamente da stupido e io sarò sempre più convinto di avere ragione e tu ti convincerai di essere… uno stupido. Il problema è che, magari, tu non sei per niente stupido… ma la mia relazione con te ti plasmerà, trasformandoti in qualcuno che confermi l’idea che mi sono fatto di te”.  

Il mio povero compagno di corso seduto in prima fila (scelto da Anolli per fare questo incisivo esempio) era di un color cremisi acceso che poco lasciava all’immaginazione: non ho mai saputo se fosse stupido, ma di sicuro si sentiva un po’ in imbarazzo…

Forse vi state chiedendo cosa sia accaduto ieri tra me e la mia amica per farmi riflettere sulla profezia che si autoavvera: in realtà una cosa semplicissima, addirittura banale. C’entra un criceto russo – e non si tratta di esperimenti alla Skinner (qualche anno fa avevo un altro criceto russo e si chiamava proprio Skinner, ma questa è un’altra storia).

Ebbene: il criceto che fa attualmente fa parte della nostra famiglia (e che si chiama Squicky, a onor del vero) ha ormai preso l’abitudine di arrampicarsi sullo sportellino della sua gabbia e di iniziare a rosicchiare finché qualcuno gli apre e lo tira fuori.
Squicky è un semplice criceto russo, un topino grigio di piccole dimensioni che sta in una mano, non è né un animale particolarmente bello né sa fare cose speciali e il suo prezzo di vendita ammonta a pochi euro. Insomma: ad essere oggettivi è un topo grigio e basta.


Questo “per il mondo”: per me, invece, è l’ultimo di una lunga serie di animaletti domestici la cui presenza mi ha sempre accompagnato nella vita, sin dall’infanzia. Quando l’abbiamo regalato al mio piccolo uomo mi sono sentita ricapultata indietro di anni, a quando ero io la bambina cui veniva regalato un cucciolo di criceto, un porcellino d’India, un cane. E quell’anonimo topino grigio ancora senza nome (scelto, com’è ovvio, dal suo nuovo padroncino) diventò all’improvviso il “nostro criceto”: mi sembrava persino più bello, più sveglio e più simpatico di quelli che condividevano la gabbia con lui. E nonostante un inizio di relazione non facile – avevo appena scoperto di aspettare un altro figlio e cercavo di stare molto attenta a non farmi morsicare perché non sapevo se il criceto veicolasse la toxoplasmosi – oggi il piccolo Squicky è un membro della famiglia a tutti gli effetti.

Ebbene: ieri mattina la mia amica, vedendomi prendere in mano Squicky, parlargli e accarezzarlo e vedendolo così confidente e tranquillo mi disse: “Ma ti vuole bene! Non pensavo che un cricetino fosse un animale… così”. 

Io non so come sono “i criceti” in generale, so solo che ho visto in quel topino grigio un amico, fin da subito, e l’ho sempre trattato con rispetto e dolcezza (anche se lo prendo parecchio in giro, ma non mi sembra che lui se la prenda troppo…) e, così facendo, gli ho permesso di esprimere comportamenti di interazione e di fiducia. L’ho “costruito”… e con gli altri membri della famiglia non si comporta come fa con me, perché ognuno degli altri vede in lui cose diverse. E, così, lui è diverso con loro.

Sapete una cosa? Si può fare lo stesso ragionamento su tutte le relazioni tra esseri viventi e, in special modo, tra esseri umani. 
Pensate ad una mamma e al suo bambino: è un bambino come tanti altri ma, per la sua mamma, è la meraviglia delle meraviglie. È unico e speciale, il bambino più splendido mai esistito al mondo.
Oppure è un estraneo, magari un bambino non desiderato, non voluto.
O magari è una sorta di nemico da cui guardarsi, perché “altrimenti hai finito di vivere”.
Ricordo che pensai alla profezia che si autoavvera quando lessi su un libro di psicologia dello sviluppo che il primo sorriso sociale di un neonato compare solo dopo il secondo mese di vita. Mi chiesi che effetto poteva avere un’informazione del genere sui pensieri, sulle emozioni e sui comportamenti di una neomamma: i sorrisi precoci del suo bambino come le sarebbero sembrati? 

Li avrebbe ignorati “perché tanto non sono ancora sorrisi sociali” o avrebbe ascoltato la voce del suo cuore e avrebbe risposto ad ogni sorriso, da subito, permettendo così al suo bambino di sorridere ancora e ancora di più? Speravo tanto nella seconda ipotesi, mi sembrava più giusta. E anche più bella.

E con il tempo iniziai a pensare alla profezia che si autoavvera fin dalla pancia della mamma, quando un “feto” si trasforma in un “figlio” e lo si considera e tratta come un vero essere umano senziente, protagonista della propria esistenza, un essere capace di vita psichica, di interazione e di relazione. E così facendo gli si consente di esprimere ciò che può, in relazione al livello di sviluppo che gli compete.

Se guardiamo i nostri figli con occhi amorevoli e li trattiamo come persone degne del nostro rispetto e della nostra considerazione sincera ed onesta, consentiamo loro di esprimere le migliori parti di sé, anche se sanno metterci di fronte ai nostri limiti per cercare i loro, quando mettono alla prova la nostra “tenuta” e osano farlo perché hanno imparato a fidarsi di noi.
E quando esprimono il “peggio” desiderano essere amati e guardati con occhi amorevoli comunque, per poter riprendere ad esprimere, poi, anche le parti migliori di sé.

Come è difficile essere genitori: ma quale enorme opportunità di crescita ci offre la maternità, la paternità. Ringraziamo i nostri figli per l’occasione che ci danno e diamo noi, a loro, l’occasione di coltivare le parti migliori di sé, quelle che si sono rivelate ai nostri occhi dal primo contatto, dal primo sguardo, dal primo sorriso.

Facciamo della profezia che si autoavvera un’alleata: vediamo nei nostri figli cose buone e belle e loro potranno realizzare la bontà e la bellezza che è dentro di loro. Ed è tanta, in misura colma e traboccante.

Un caro saluto a tutti,
Maria Beatrice 

12 gennaio 2012

Il cuore non dimentica

Buongiorno a tutti voi! 

Stamattina sono di ritorno dal centro prelievi dell'ospedale: sono reduce dalla curva di carico del glucosio, quella del bibitone extradolce che, per una cui ultimamente un cucchiaino di miele dà la nausea, rappresenta una sfida metabolica e psicologica non da poco. 

La permanenza forzata per le necessarie latenze tra un prelievo e l'altro è però stata foriera di incontri umanamente significativi: la mamma incinta con cui scambiarsi informazioni e chiedersi le solite cose (a quanti mesi sei, è maschio o femmina, come mai devi fare questi esami ecc.), la neomamma con pulcina di 9 mesi al seguito, che è tutta un trillo e una gioia di lallazioni e quando sorride ti mostra l'unico dentino spuntato (con cui, peraltro, cerca in ogni modo di sgranocchiare il biscottino che ha in mano), la nonnina che ti racconta di quando lei aspettava i suoi figli e di come sono cambiate oggi tante cose... e via dicendo.

Nel panorama umano che ho incrociato questa mattina, il posto d'onore va a due bimbe, due gemelline bellissime. Vi racconto cos'è successo.

Ero seduta a leggere (anzi, ri-leggere per l'ennesima volta) “Amarli senza se e senza ma” di Alfie Kohn. Dato che sarà uno dei prossimi libri recensiti sul Blog ho il piacere e il dovere di rileggerlo per intero.
Mentre leggo, si sente un bimbo che comincia a piangere. Alzo gli occhi (inevitabile, ormai è una sorta di riflesso condizionato!) e vedo che si tratta di una bimba che avrà 5 anni; ha il cerotto sul braccio e vicino a lei c'è la sorellina. Insieme a loro c'è la nonna.

Caso vuole che sia arrivato il momento del mio secondo prelievo e per raggiungere l'infermiera passo proprio davanti alle bimbe. Quella che piange è proprio un po' disperata, continua a dire “mamma, mamma... voglio la mamma” e poi, alla nonna che cerca di sistemarle il cerotto per abbassarle la manica urla “ho paura, ho paura!”.

La nonna, poveretta anche lei, all'inizio cerca di fare finta di niente, ma poi dice quello che la maggior parte delle persone di solito dice in queste situazioni: “Basta. Baaasta! Finiscila, ti guardano tutti! Penseranno 'che rompiscatole quella bambina lì' ”.

Non mi sapevo spiegare fino in fondo perché continuassi a guardare quella scena, era più forte di me. È vero che stavo leggendo un libro ad hoc per l'occasione, è vero che sono incinta e quindi la mia emotività è più labile del solito (stiamo freschi...). Tutto vero. Ma mancava qualcosa.

Insomma: dato che l'infermiera era ancora impegnata con una paziente... non ho resistito e sono andata dalla bimba. Ho sorriso alla nonna (che mi ha guardato un po' così, ma poi ha subito ricambiato il mio sorriso) e mi sono accovacciata vicino alle piccole. Avevo sentito il nome della bimba poco prima mentre la nonna le parlava e allora l'ho chiamata per nome e le ho detto che la sua mamma sarebbe arrivata presto, che poteva stare tranquilla. Quando si è girata verso di me le ho sorriso e ho azzardato di posarle la mano sulla schiena (a pensarci ora ho proprio osato, ma mi veniva istintivo farlo!) per farle una carezza. Lei ha smesso un po' di piangere e la nonna le ha detto “dov'è andata la mamma?”. E la piccolina “a.... fare.... gli esa... esami... del... sangue...”. Le ho fatto vedere che anche io come loro avevo il cerotto e quindi capivo che non è facile fare l'esame del sangue, come per loro. E anche io ero una mamma e dovevo aspettare un po' prima di tornare dal mio bimbo. La sorellina, più audace, mi ha fatto vedere il “diploma” di bimba coraggiosa che le avevano dato le infermiere e così ho avuto modo di dire ad entrambe le piccole che erano state bravissime e che la mamma le avrebbe baciate subito, appena sarebbe arrivata.

Nessuno piangeva più. La nonna non si era sentita malgiudicata e ci siamo sorrise di nuovo. Ho salutato le bimbe e sono andata a farmi bucherellare di nuovo il braccio.  

Tempo cinque minuti e, tornata al mio posto per attendere il terzo prelievo, mi è scappato l'occhio verso le bimbe e ho visto la mamma.
Ma... ma io quella mamma la conosco! Non la vedo da qualche tempo, almeno due anni, ma ho capito chi è! Ho capito chi sono quelle bimbe che mi avevano colpito e catturato il cuore in modo così particolare.

Io ho conosciuto quelle bimbe quando avevano un anno e mezzo, in uno dei Nidi di cui ero responsabile e psicopedagogista. Mi si è illuminata la mente alla luce di questo ricordo; il cuore, invece, non aveva avuto bisogno di tempo e di pensiero. Aveva reagito prontamente al bisogno, contro ogni logica e, forse, addirittura contro ogni prudenza.

Mi sono avvicinata ed è stato bello chiacchierare un po' con la loro mamma e raccontarsi i cambiamenti degli ultimi anni.

Le relazioni sfuggono alla logica del tempo, dello spazio, alle regole del “fatti gli affari tuoi” e “pensa per te”. Le relazioni vivono una vita a sé e ti stupisci di come possano continuare ad esistere nel cuore senza che tu debba sforzarti. Continuano ad esserci, e basta.

Mi chiedo anche se nel cuore di quelle bimbe, specialmente di quella che piangeva e alla quale mi sono avvicinata con una confidenza che di solito non ho per i bimbi che non mi conoscono, sia rimasta una traccia della nostra passata relazione.
Mi piace pensare che sia così e che, per questo motivo, le mie parole e la mia carezza non abbiano spaventato o allontanato ma, anzi, abbiano sortito il piccolo effetto di rassicurazione che desideravo avessero.

Il cuore non dimentica.  

Con questo pensiero vi saluto e vi auguro buona navigazione!

Maria Beatrice 

1 dicembre 2011

Metodo Estivill (“Fate la nanna”): cosa è bene sapere

Buongiorno a tutti!

In questi giorni “post inaugurazione” del blog, mi trovo a chiacchierare con amici e colleghi che lo visitano e molti mi dicono di aver letto i post che parlano di Estivill e e del suo metodo. È un argomento ultra gettonato, non c'è che dire.

Rispetto al “Metodo Estivill” vi invito a leggere questo articolo su “Il Bambino Naturale” . Lo trovo molto importante perchè chiarisce informazioni cruciali sulla posizione che diversi organi, enti ed associazioni scientifiche hanno pubblicamente preso nei confronti del metodo stesso. Non credo che Estivill avrebbe tutto questo “appeal” se in quarta di copertina di “Fate la nanna” ci fosse scritto tutto quello che leggerete! 

Leggete anche i commenti – ne ho scritto uno anche io – e vi farete un'idea rispetto alla confusione che esiste sul metodo, su come si possa/si debba applicare e sugli effetti anche discontinui che può avere. Mi riferisco al fatto che non è un metodo “per tutta la vita” ma solo un metodo “salvavita” nel qui-e-ora. Non garantisce sonni tranquilli e prolungati a tutti nel tempo, ma solo entro breve. Per cui: un trasloco, un cambiamento di vita, una malattia, anche solo il nasino chiuso, potrebbero far crollare il gigante dai piedi di argilla e si dovrà di nuovo scegliere come affrontare i risvegli notturni dei bimbi Estivillizzati. Ho incontrato mamme che hanno utilizzato Estivill con successo anche nel tempo, mamme con bimbi paciosi e dormiglioni di loro, intendiamoci..., così come ho incontrato mamme che ammettono di aver dovuto ripetere il metodo a più riprese perchè a un certo punto il loro bimbo aveva ricominciato a svegliarsi e le cose erano ancora più difficili della volta precedente (sarebbe utile chiedersi il perchè...).

Vi invito a guardare questo video in cui Bob Sears (uno dei figli di William Sears, entrambi pediatri), racconta del “Metodo Sears” per aiutare i bimbi a dormire anche nel loro lettino (come anche con i genitori, se ce n'è bisogno) “calmly, peacefully and stress-free”, vale a dire tranquillamente, serenamente e senza stress (per il bambino, ma anche per i genitori). Mi spiace che il video sia in inglese, ma i punti essenziali sono:
a. è possibile insegnare al proprio bambino che “a volte è ok dormire nel lettino”,
b. la chiave della buona riuscita del metodo sta nella rassicurazione e nella presenza del genitore,
c. si possono e si devono accarezzare, toccare, baciare i bambini
d. si può anche dormire insieme.



Nessun diktat, ma molto buon senso, molti sorrisi (tanti sbadigli, eh, non facciamoci sciocche illusioni!) e soprattutto molta intelligente e sana flessibilità. Inoltre, i tre “step” del metodo sono molto chiari:
1 - rule out medical issues, vale a dire escludere qualsiasi tipo di problema di origine organica (e vi sembra poco?)
2 – insegnare al bimbo a dormire da solo nel lettino (e NON ad addormentarsi da solo)
3 – aumentare il coinvolgimento del papà

Sears insiste sull'importanza di rituali della nanna intesi come modalità ripetibili e riconoscibili per accompagnare il bambino nel sonno. Anche Estivill insiste sui rituali ma, nel suo caso, i rituali rappresentano tutto ciò cui un bimbo si può appoggiare per rassicurarsi, insieme all'oggetto transizionale scelto.

In pochi giorni il bimbo del video dorme anche nel suo lettino, si addormenta più velocemente e, comunque, può essere anche portato in camera con mamma e papà.
Nel giro di un paio di settimane le cose migliorano ancora e tutti ne beneficiano. Nessun bambino ha pianto da solo (tantomeno ha vomitato o si è fatto addosso tutti i bisogni), nessun genitore ha dovuto farsi violenza per non accorrere al pianto del suo bambino. Ci vogliono più dei tre “magici” giorni di Estivill, i genitori sono impegnati molto ma soprattutto fisicamente e i loro livelli di stress non sono dovuti salire alle stelle. Ma, soprattutto, non c'è stata alcuna tabella da rispettare perchè i tempi sono dettati dal feedback che il bambino dà con i suoi comportamenti e le sue reazioni.

Cosa ne dite? Mi sembra che valga la pena pensarci.

Aspetto i vostri commenti!

Maria Beatrice :)

21 novembre 2011

Presto e bene, raro avviene

Buongiorno a tutti!  
Oggi ho deciso di parlarvi di un argomento che molto spesso è oggetto di conversazioni e chiacchere tra e con le mamme: la "velocità di crescita" dei bambini. MI spiego meglio: per la maggiori parte delle persone sembra che la velocità con cui un bambino raggiunge determinate tappe dello sviluppo sia un indicatore cruciale per capire se il bambino è "avanti" o se è "indietro". Come a dire se "possiamo essere orgogliosi" oppure se "dobbiamo precoccuparci".
Secondo questa linea di pensiero è giusto fare tutto ciò che si può per accelerare i tempi di sviluppo del bambino, offrendo stimoli (e qui sono d'accordo) anche prima del tempo (e qui non sono più tanto d'accordo!) e basandosi sulle esperienze altrui e sulle offerte di mercato invece che sull'osservazione dell'irripetibile bambino che si ha di fronte.
Faccio un paio di esempi per spiegarmi meglio.
Situazione numero 1. La bisnonna di una bambina di 5 mesi mi dice tutta orgogliosa che la nipote ha acquistato il girello per la figlioletta e che la bimba non solo riesce a starci seduta dentro ma che addirittura punta i piedini a terra e riesce a spingersi un po' e a spostarsi per brevi tratti. Ora: data la bisnonna l'unica cosa da fare è sorriderle e non dire altro, ma se potessi dire la mia opinione alla mamma suggerirei di considerare che mettere una bambina di 5 mesi nel girello è pericoloso e assurdo, per la schiena della bimba, per le sue gambe, per la sua psiche che non è pronta a sostenere un approccio al mondo come lo veicola il girello. Un bambino di 5 mesi FORSE inizia a reggersi seduto a terra, costringerlo ad una posizione e a un movimento assolutamente inidoneo per l'età come quello caratteristico del girello è semplicemente sbagliato. Inoltre, se un bambino di per sè non è ancora dotato della capacità fisica di spostarsi autonomamente nell'ambiente è perchè non è nemmeno pronto psichicamente a farlo. Perchè farlo "correre" se non è ancora pronto a "camminare?". Ma se guardiamo il tutto con il criterio della precocità e della velocità, invece, ecco che si tratta di un'ottima idea, così la bambina imparerà presto a muoversi per casa, non dovrà essere sorretta dalle braccia di nessuno e potrà far impazzire tutti di gioia perchè è "tanto avanti!".
Situazione numero 2. Sembra che il cosiddetto "spannolinamento" stia diventando una sorta di corsa a chi arriva prima. Anzi, a chi comincia prima! E' tutta una serie di aneddoti di mamme superorgogliose perchè la loro bimba (solitamente si tratta di femmine, per le quali lo spannolinamento è in genere più rapido-e-indolore) non ha più il pannolino da tanti mesi e nemmeno di notte e nemmeno per sbaglio... Poi, purtroppo per lei, in mezzo all'orgoglioso e gongolante crocchio delle supermamme (?) delle superbimbe (?) c'è sempre una mamma che fino a cinque minuti prima non si poneva ansiosi quesiti ma che ormai, dopo aver ascoltato silente gli epici racconti delle colleghe, SA che nella SUA bambina c'è QUALCOSA CHE NON VA... E lì parte il dramma, perchè "allora non è normale avere ancora il pannolino a tot mesi?". E dove sta scritto? Ovviamente non osa, la povera mamma, porre il quesito alle supermamme, riceverebbe una risposta lapidaria. Meglio decidere in segreto di provare IL GIORNO STESSO a cominciare le pratiche per lo spannolinamento.  "Bisogna cominciare", la mamma se lo ripete come un mantra indiano, noncurante di ciò che il suo buon senso e il suo 
istinto le sussurrano: "Ma perchè? Non è ancora il momento". "No, no" - risponde lei - "adesso basta con queste titubanze, BISOGNA COMINCIARE". Si innesta così un meccansimo terribile, fatto di tensioni, aspettative, (probabili) fallimenti, frustrazioni, lacrime, pozze di pipì sparse per il mondo e simili ameni compagni di viaggio. Fino a che una voce (non so di chi, ma prima o poi arriva) dice alla mamma che NON ESISTE un momento giusto per tutti per lo spannolinamento e che NON HA SENSO decidere che questo momento è giunto SENZA AVER OSSERVATO CON ATTENZIONE E RISPETTO IL PROPRIO BAMBINO E I SUOI COMPORTAMENTI. Perchè il bandolo di ogni matassa sta lì, nell'osservazione del bambino e in nient'altro. Anche in questo caso è solo il bambino a sapere quando è il momento. E se abbiamo l'umiltà di osservare e ascoltare, lo capiremo anche noi. Anche qui non ha alcun senso accelerare.
E' ovvio che due esempi non sono rappresentativi di tutte le possibili situazioni, ma credo che rendano l'idea di ciò che volevo dire.
Un bambino non è un'automobile di Formula Uno, che è stata costruita per arrivare velocemente al traguardo e, possibilmente, prima delle altre automobili. Un bambino è una persona e non è giusto accelerare i tempi del suo sviluppo. 
Martin Buber diceva “Con ogni uomo viene al mondo qualcosa di nuovo che non era mai esistito, qualcosa di primo e unico… Ciascuno ha l’obbligo di riconoscere e considerare che l’individuo è unico al mondo nel suo genere e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui.Se infatti fosse esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo”.
E ancora, Esther Weber scrive "Il bambino, durante il suo sviluppo e se i suoi tempi sono rispettati, affronterà lo spazio aperto un po' alla volta nella misura in cui si può effettivamente mettere in contatto con esso".
Cosa ne pensate? Attendo i vostri commenti!
Buona prosecuzione di lettura sugli altri post!

Parlar chiaro sulle sculacciate

A seguito di un incontro sul tema "Capricci, regole  e relazioni familiari" da me tenuto ad un gruppo di mamme nella scorsa primavera, avevo trovato on line  questo documento dal titolo "Parlar chiaro sulle sculacciate" estremamente interessante e importante . Ero rimasta colpita dall'intervento di una mamma presente a quel'incontro che decisamente si opponeva all'idea che qualche sculacciata possa far male ad un bambino (chi vuol saperne di più può leggere il commento a caldo che avevo postato in fb il 19 Aprile 2011).

Anche pensando a questa mamma, avevo inoltrato il documento prima indicato ad una mailing list di genitori che curavo mensilmente e ne avevo ricavato alcuni feedback interessanti. 

Sono convinta che non sia mai inutile lo sforzo di divulgare e diffondere queste informazioni. Vi chiedo, se lo volete e se lo considerate giusto, di partecipare a questo sforzo. Ognuno di noi conosce tante mamme e tanti papà, con il tam-tam della quotidiana frequentazione queste info potrebbero girare rapidamente nelle nostre scuole, nei quartieri in cui viviamo, nelle comunità che frequentiamo.

Non è mica una catena di S. Antonio, è una sfida per il futuro dei nostri bambini (e nipoti e pronipoti ecc.).

Che dite, entriamo in cordata?

Un caro saluto a tutti,

Maria Beatrice